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lezioni veneziane #2
dall'ispirazione all'opera “In dreams begin responsibilities...” (W.B. Yeats) a) qualche anno fa una collega mi ha fatto giurare che non avrei mai raccontato quelli che si chiamano "i segreti del mestiere" e oggi ho tutte le intenzioni di tener fede alla promessa. come vedete, questo pone dei limiti abbastanza stretti alla mia piccola conferenza. e quindi nel raccontare il cammino, dalla prima confusa intuizione che "questo si dovrebbe raccontare" (quello che ai romantici è sempre piaciuto chiamare ispirazione) al lavoro finito (l'opera), comincio con questo: non aspettatevi di sentirmi dire tutto. non solo perchè c'è sempre una parte molto privata messa in pubblico nella nostra professione, e non si deve esagerare con le confessioni, ma nascondo volutamente parti -anche importanti- di questo cammino per proteggere l'opera da un'interpretazione troppo stretta. credo infatti fermamente e appassionatamente che la mia maniera di leggere quel che faccio sia solo una -magari autorevole ma solo una- delle maniere possibili. molte volte mi è capitato di sentire opinioni belle e sorprendenti sui miei lavori che me li hanno mostrati sotto una luce del tutto diversa, e ogni volta ho sentito che l'opera cresceva di statura e di spessore sotto le ruvide carezze di queste nuove letture. con il passare degli anni, questo è diventato una specie di metodo: a volte tolgo da un lavoro delle cose che ci potrebbero stare bene per lasciare a chi guarda più margine di manovra, per vedere a modo suo quel che ho fatto a modo mio. negli ultimi 100 anni molti colleghi hanno usato tecniche simili e ci sono varie ragioni (storiche, sociologiche, politiche) per questo. voglio farvi solo un'esempio: una quantità di titoli di opere nascondono molto più di quel che dicono, a volte l'artista sviluppa una specie di virtuosismo nel dare titoli assai narrativi a lavori fatti di un paio di linee, una macchia di colore su un pezzo di legno di recupero, un'azione appena accennata, appena documentata da una foto. a volte sono opere magnifiche, e a volte hanno titoli ancor più belli. e poi: chi può dire di saper ricostruire con certezza le stazioni di un processo mentale? ci sono semplicemente (e banalmente) molte cose che io non so di me e del mio lavoro, e queste cose non posso raccontarle di sicuro ... inoltre la questione è ancora complicata dal fatto che io uso tecniche tra loro molto diverse, e anche di questo con gli anni ho fatto un metodo: se alla fine di quel processo -che inizia all'interno della mia testa e che approda a qualcosa di visibile- ci sia un disegno o un'installazione o una performance (o tutte queste cose insieme, o una nuova tecnica) non lo posso sapere, e questa incertezza è forse l'aspetto che mi piace di più del lavoro che faccio. b) quello di cui invece posso e voglio parlare è il rapporto tra la prima intuizione e l'opera finita, e per farlo vi mostro per prima cosa il risultato del processo <2 foto del Lusitania>. si tratta di uno dei miei ultimi lavori, ma ci sto pensando da almeno 2 anni. il titolo è "Lusitania, la cena del capitano". (il Lusitania era un transatlantico inglese affondato da un siluro tedesco nel 1915. fu un disastro maggiore di quello del Titanic, morirono quasi 1400 persone) in un quaderno di appunti del 2004 ho trovato questa frase: ferrara, palazzo dei diamanti. le foto di Rauschenberg: quando pensi di aver tutto sotto controllo, il disastro e la rovina stanno per prendere il sopravvento. come vedete il problema è quello di rappresentare uno stato di quiete, in maniera però da far immaginare un prossimo sviluppo negativo. ricordo bene -credo adesso di ricordare bene- che sono uscito dalla mostra con l'idea di fare un lavoro su questo tema. ci sono moltissimi esempi di soluzioni a questo problema nella storia dell'arte. questo (foto) è nr.5 (1969) di Richard Serra, come in molte delle sue sculture tutto è in equilibrio assolutamente precario, e solo l'enorme peso del materiale consente all'opera di reggersi, e consente a chi la vede di immaginare la rovina che produrrebbe la caduta di tutto quell'acciaio. quest'altra (foto) opera è la porta-finestra a Colliure (1914) di Matisse (proprio lui, quello che ha detto “chi dipinge dovrebbe tagliarsi la lingua”...) la qualità della foto è molto bassa, ma se avete visto il quadro a Parigi, al museo Pompidou, forse siete d'accordo con me: l'interno della stanza (che quasi non si vede) sembra desiderare che il minaccioso mondo esterno, così buio, entri e spezzi un' equilibrio diventato insopportabile. per ultimo vi mostro (foto) il più appassionato e sconvolgente -secondo me- dei miei esempi: due figure abbracciate di Dosso Dossi (1524), diviso a metà tra i due stati: la quiete (con presagio) e lo spavento; i due soggetti sono vicinissimi, ma allontanati dai loro rispettivi e opposti sentimenti. probabilmente Dosso stava lavorando qui a uno dei suoi temi più cari -il doppio rapporto pittura/scultura e attimo/sequenza temporale ma mi pare che il quadro illustri anche perfettamente il nostro tema di oggi. da parte mia, ho cominciato facendo una serie di disegni (foto), avevo anche voglia di ricominciare a dipingere dopo 10 anni di interruzione. dopo un po' mi sono accorto che -senza che io capissi perchè- i disegni si stavano riempiendo di acqua e di vento (foto). detto così sembra strano, ma era come se stesse crescendo una marea, e io dovessi prenderne atto. c'è una bellissima leggenda, quella del Re Canuto, che parla di un sovrano orgoglioso che comanda alla marea di fermarsi e si ritrova bagnato e umiliato. non bisogna cercare di fermare i fenomeni naturali, maree crescenti o pensieri che vogliono farsi strada, se non si vuole rendersi ridicoli come il Re Canuto. non avevo però idea del perchè le cose avessero preso questa piega e mi stessero portando verso il risultato finale, l'installazione che vi ho mostrato all'inizio, finchè non sono ritornato alla frase sulle foto di rauschenberg: quella parola "sopravvento" è la chiave nascosta, la sua origine marinara prefigura e contiene tutto il lavoro finito, ma io me ne rendo conto solo adesso mentre scrivo queste note. i miei colleghi russi -che non dividono mai i campi dell'arte e dell'etica- insistono sempre sulla sincerità dell'opera ("produrre opere sincere vuol dire vivere senza reticenze" dice il mio amico Igor Shirshkov). quel che io tento più modestamente è far riaffiorare l'origine di un lavoro dal buio profondo dove sta la sua origine, un movimento inverso a quello del capitano del Lusitania, che sta cenando e non sa ancora di quell'acqua che già gli sale intorno e che lo avvolgerà e trascinerà a fondo con la sua nave ... su